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Arriva qualcuno a raccontarci tutta la storia di un immenso mare, l’Atlantico

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Questo articolo è uscito su il Venerdì di Repubblica

Sfogliamo un atlante. O ancora meglio: prendiamo un mappamondo, osserviamolo, facciamolo girare. Quel che vediamo sono i continenti, le lingue di terra di cui non ci eravamo mai accorti, le catene montuose, le isole, grandi e piccole, i poli, i ghiacci con i loro contorni bianchi, grigiastri, immacolati e misteriosi. Il resto è mare. Mare immenso che è come un buco attorno alla vita. Il mappamondo, in genere, lo dipinge di azzurro. Sfumature ridotte al minimo. Ombre bianche attorno alle terre e nient’altro. Un azzurro nulla senza vita. D’altronde, cosa importa? Tutta quell’acqua è ciò che divide i continenti, ciò che impedisce le comunicazioni. Un ostacolo, insomma. Non dobbiamo saperne poi troppo. Sappiamo i nomi degli oceani, certo, e di alcuni mari, ma sono nomi che contengono il vuoto nulla di quell’azzurro indistinto. Finché non arriva qualcuno a raccontarci tutta la storia di un immenso mare, la storia dell’oceano per eccellenza, l’Atlantico. La storia dei primordi e quella del futuro. Le strade costruite attraverso quel mare, le sue vittorie e le sue sconfitte, i cantori, gli esploratori, i suoi popoli, la sua fauna. Allora, improvvisamente, quell’oceano diventa una specie di continente e noi possiamo cominciare a guardarlo seguendo linee invisibili, immaginando luoghi, riconoscendo correnti, venti, colori. È un cambiamento della nostra percezione talmente drastico che assomiglia a una rivoluzione. E come ogni rivoluzione ci riempie di stupore e soddisfazione. È quel che capita lasciandosi portare nei turbini delle correnti che percorrono Atlantico di Simon Winchester (Adelphi, pp. 485, euro 32), un immenso insieme di conoscenze, aneddoti, numeri, supposizioni, racconti e divulgazione che lascia attoniti, all’inizio, per poi meravigliarci e cullarci di una nuova consapevolezza. L’Atlantico è un mondo.

Tutto ha inizio quando di esseri umani non c’è neppure l’ombra, ma poiché la storia di un continente ha valore ai nostri occhi quando noi cominciamo a popolarlo, la vera storia di questo libro si apre quando i Fenici, circa nove secoli prima della nascita di Cristo spingono le loro imbarcazioni oltre le famose colonne che il mito attribuisce a Ercole. Bisogna aspettare parecchi altri secoli perché Genovesi e Arabi riprendano a commerciare oltre quelle sponde. Chi li segue, Vichinghi e Irlandesi, ha voglia di guardare più in là. Ormai siamo certi che già attorno al 1000 popolazioni norrene arrivarono a superare il vasto mare, insediandosi a Terranova. Winchester ci racconta della loro inconsapevolezza e della loro curiosità con ben altro affetto rispetto a quello nutrito verso l’uomo che si prese ogni merito quasi cinque secoli dopo, Cristoforo Colombo. Del resto, questa storia di attraversamenti e scoperte che culmina con i cartografi di Friburgo pronti a confermare per queste acque il nome che anticamente già Erodoto aveva scelto, non è la storia principale. È un canovaccio necessario, però, una premessa al mare che sostituisce il Mediterraneo, diventando il mare della civiltà occidentale. Letteratura, musica, pittura crescono a cantare questo nuovo mondo. Dal Nocchiero del Codice Exeter, poema sassone dell’VIII-IX secolo reso celebre da Ezra Pound, fino a Shakespeare, Milton, Dickens, Poe, Melville, Conrad, tanto per dirne qualcuno. Eppoi Beethoven, Mendelsson, Wagner, Debussy. E ancora Dürer, Monet, Turner, Winslow Homer.

I cantori però possono spingere al fraintendimento quando è necessario dar conto dei movimenti più atroci e crudi che solcarono i mari intrecciandosi tra il XVII e il XIX secolo. Prima, il secolo della pirateria che Winchester ci racconta in toni molto diversi da quelli delle epopee romanzesche. Poi, la tragedia della schiavitù, a tal punto negletta dal senso comune del tempo e più tardi desostanziata dall’immane mole di denunce che oggi i semplici resoconti contenuti in Atlantico ci appaiono strazianti. Non si fa in tempo a dimenticare questi orrori che subito ci troviamo di fronte alle immigrazioni del XIX-XX secolo mentre veniamo istruiti su come le guerre navali abbiano seminato morte nei mari, dalle tecniche di battaglia a vela, passando per quelle a vapore fino allo stravolgimento di ogni regola, con l’avvento dei sottomarini. Troppo dolore. Ma come ogni terra, l’Atlantico è sfondo di morte come di vita. Ecco i commerci, le scoperte, le comunicazioni sempre più strette. Perché, si sa, le informazioni devono correre. Se nel 1760 la morte di re Giorgio viene comunicata ai sudditi in sei settimane, un secolo dopo, la notizia dell’uccisione di Lincoln arriva a Londra in dodici giorni. Ancora troppi, secondo alcuni. Si comincia a lavorare all’idea di cavi sottomarini. Il Nuovo Mondo deve unirsi al Vecchio benché ci sia chi, come Thoreau, sentenzi che non ha senso per gli americani sapere “che la principessa Adelaide ha la pertosse”. Forse, in parte, Thoreau intuiva già il delirio di inutili informazioni che ci avrebbe seppellito, dopo che il 12 dicembre 1901 Guglielmo Marconi riuscì a scambiare messaggi radio fra Terranova e Cornovaglia. Con il “secolo breve” sarebbe arrivato ben altro, del resto. Le rotte aeree avrebbero reso il mare non più una terra da attraversare ma uno stagno da dimenticare. Devastazione, inquinamento, pesca distruttiva, scomparsa di specie ittiche, petrolio. La preoccupazione di una catastrofe marina sarebbe comparsa attraverso gli studi di una donna, Rachel Carson, biologa marina americana, che negli anni Sessanta lanciò i primi allarmi. Oggi forse è tardi. Lo scioglimento dei ghiacci, le temperature folli, gli uragani devastanti, come Katrina. Bazzecole in confronto a ciò che deve ancora venire. Il vero futuro dell’Atlantico infatti non contempla per nulla la vita di tutti quegli esseri che su di esso hanno cercato di creare oltreché distruggere. Nato 190 milioni di anni fa, l’Atlantico come oceano sopravviverà altri 180 milioni di anni, finché non verrà richiuso dalle terre estinguendosi per sempre. Allora, però, noi saremo estinti da un pezzo. Dei suoi quasi 400 milioni di anni di vita  noi ne avremo vissuti forse 200.000. Winchester si limita a constatarlo. Per chi legge, tuttavia, è difficile ammettere che la fine di tanta storia avverrà in silenzio. Viene da pensare che su quell’ultimo microscopico stagno, risuoneranno ancora le note di Wagner o di Debussy, come un suono lontanissimo ma inestinguibile, danzante di parole alate che cantano il “mare color del vino” come per primo lo chiamò Omero.


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